I disturbi di personalità si riferiscono, per definizione, ad un quadro clinico caratterizzato da "un pattern comportamentale e di esperienza interiore che devia marcatamente rispetto alle aspettative della cultura dell'individuo". Tale pattern comportamentale, che ha origine durante l'adolescenza o la prima età adulta, è disadattivo, pervasivo ed inflessibile, coinvolge l'intera personalità di chi ne è affetto e ha impatto dunque sulla sua sfera cognitiva, sull'affettività, sul comportamento interpersonale e sul controllo degli impulsi. Pur non essendo quasi mai percepito come dissonante da chi ne è affetto, in quanto rappresenta appunto il pattern comportamentale abituale del paziente, tale disturbo causa disagio clinico marcato, andando ad impattarsi in maniera profonda con le aspettative culturali, e causando un significativo danno sociale o lavorativo. Rigidità comportamentale ed inflessibilità si configurano sempre come i principali indicatori di disturbo di personalità, di qualunque genere esso sia, e rappresentano dunque un marker importante per la definizione diagnostica e per la pratica clinica. Sebbene infatti ognuno di noi possa avere dei tratti di personalità "sui generis", o che possono apparire eccentrici o particolari all'esterno, sono la rigidità e la disadattività di tali comportamenti a fare da discriminante clinica.
Considerando la delicatezza dell'argomento, che comporta il rischio di attribuire un'etichetta diagnostica ai comportamenti umani e ai tratti caratteriali, i disturbi di personalità rappresentano un discorso a sé stante in psicologia clinica, ben lontani da disturbi clinicamente più evidenti e con minori implicazioni sociali. Negli ultimi anni, in seguito a ricerche e dibattiti, si è infatti sviluppata la proposta di alcuni modelli alternativi per la diagnosi, in un'ottica multidimensionale che tenga conto delle caratteristiche individuali, delle richieste sociali, e dei tratti di personalità.
Ai fini diagnostici si distinguono infatti due approcci, uno di tipo "categoriale", secondo il quale la differenza tra i vari disturbi è di tipo qualitativo, ed uno alternativo multidimensionale. Secondo la classificazione nosografica classica di tipo categoriale, i disturbi della personalità sono dieci, ognuno con le sue specificità comportamentali e con le sue particolarità, e per fini didattici e di ricerca sono raccolti in tre gruppi in base ad alcune analogie descrittive e caratteristiche comuni. Si distingue dunque un disturbo paranoide di personalità, uno schizoide, ed uno schizotipico per il gruppo A. Il gruppo B include invece i disturbi antisociali, borderline, istrionici e narcisistici di personalità, mentre nel gruppo C rientrano il disturbo evitante di personalità, quello dipendente, e il disturbo ossessivo-compulsivo di personalità. E' opportuno segnalare che in alcuni casi due o più disturbi di personalità si possono inoltre presentare in concomitanza, anche nel caso in cui appartengano a gruppi differenti. Sebbene i nomi di tali disturbi possano richiamare a disturbi ben diversi di tipo nevrotico o psicotico, è bene ricordare che si tratta di una classificazione a sé stante sia nella pratica clinica che per quanto riguarda i manuali diagnostici. Ad esempio, tra un disturbo ossessivo-compulsivo di personalità ed un disturbo ossessivo-compulsivo c'è un'enorme differenza, così come tra un disturbo paranoide di personalità ed una schizofrenia paranoide.
Un'altro approccio a questo genere di classificazione diagnostica di tipo "inclusivo-esclusivo" è invece il modello multidimensionale, secondo il quale i disturbi di personalità sono varianti disadattive di tratti di personalità normalmente sani, che si possono susseguire lungo un continuum "normalità-patologia".
"Tutto dipende da come noi guardiamo le cose, e non da come le cose sono di per se stesse" (Carl Gustav Jung)
Dott. Massimiliano Bosco, M. Sc. Psych. - Psicologo clinico, Neuropsicologo
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